David Kellog Lewis era un filosofo americano, uno dei più influenti della sua generazione e, in prospettiva, tra i più sistematici mai nati oltreoceano. La sua produzione filosofica consta di quattro monografie e di circa cento articoli (ottantanove dei quali sono raccolti in cinque volumi pubblicati tra il 1983 e il 2000), e si distingue per lo stile chiaro, conciso e calzante.
Immaginate un regista che passi la vita girando cortometraggi sui temi più apparentemente distanti; e immaginate che – con sua stessa sorpresa – alla fine della carriera quel regista si renda conto di aver effettivamente girato un'unica, lunga pellicola fatta di tutti quei piccoli film. Ecco, la vicenda filosofica di Lewis è tanto unica quanto quella del nostro immaginario regista: ha passato la vita a scrivere di problemi filosofici 'locali'; e alla fine si è accorto di aver costruito, passo dopo passo, un unico lungo, compatto mosaico di idèe.
CENNI BIOGRAFICI
Nato il 28 settembre 1941 ad Oberlin, nello stato dell'Ohio (U.S.A.), figlio di due accademici, Lewis conseguì la laurea presso lo Swarthmore College (Pennsylvania), una delle più fulgide palestre per talenti filosofici negli Stati Uniti. (A Swarthmore si sono laureati – per citarne al-cuni – Cora Diamond, Allan Gibbard, Gilbert Harman, Alexander Nehemas, Barbara Partee, Susanna Siegel.) È noto che il giovane Lewis decise di dedicarsi alla filosofia durante il terzo anno di università, che trascorse ad Oxford in compagnia di un altro studente di Swarthmore – Peter Unger, poi professore nel dipartimento di filosofia della New York University. A Oxford, Lewis ascoltò l'ultimo ciclo di lezioni tenute da John L. Austin ed ebbe come tutrice Iris Murdoch. L'anno successivo, conseguita la laurea in filosofia, proseguì i suoi studi presso la Harvard University, uno dei dipartimenti più vivaci di allora, dove insegnavano tra gli altri Willard Van Orman Quine, Nelson Goodman, Hillary Putnam. Tra i suoi compagni di corso, Saul Kripke (i due saranno poi per molti anni colleghi anche a Princeton). E sempre ad Harvard Lewis conobbe la sua futura moglie, Stephanie, allora studentessa di psicologia, con cui nel corso degli anni avrebbe coautorato tre articoli. Nel 1966, in procinto di ricevere il Ph.D., Lewis accettò il suo primo incarico di insegnamento presso la UCLA. La sua tesi di dottorato, uno studio sulla convenzione, divenne poi il volume Convention. A Philosophical Study (1969, Harvard University Press). Oltre a quel volume, mentre era professore a UCLA, Lewis pubblicò circa una dozzina di articoli che hanno segnato il dibattito in filosofia della mente, semantica, metafisica e logica. Nel 1970 si trasferì a Princeton, dove rimase fino alla prematura morte, avvenuta il 14 ottobre 2001, a causa di un diabete cronico. Un profondo impatto sul suo pensiero ebbero i numerosi soggiorni australiani in compagnia di Stephanie, avvenuti nelle estati (dell'emisfero Nord) del 1971, 1975, 1979-1999 e 2001.
IL PROGRAMMA FILOSOFICO LEWISIANO
L'espressione sopravvenienza humeana è stata coniata in onore del noto oppositore delle connessioni necessarie. Si tratta della dottrina secondo cui il mondo altro non è che un vasto mosaico di accadimenti 'locali' iscritti entro fatti particolari, una piccola cosa qua e un'altra là. (E non fa parte della dottrina l'idea che ci siano accadimenti locali di tipo esclusivamente mentale.) Abbiamo la geometria: un sistema di relazioni esterne che riguardano la distanza spazio-temporale tra punti. Forse abbiamo anche i punti stessi dello spazio-tempo, forse pezzettini puntiformi di materia o di etere o di campi, forse abbiamo tutte queste cose assieme. E per ciascuno di questi punti abbiamo delle qualità locali: delle proprietà intrinseche perfettamente naturali, che non hanno bisogno di niente più che un punto per essere istanziate. In breve: abbiamo una distribuzione di qualità. E questo è tutto. Non vi è differenza senza una differenza nella distribuzione. Tutto il resto sopravviene. (Philosophical Papers, vol. II: ix-x.)
Pochi passi lewisiani hanno influenzato l'interpretazione del suo pensiero quanto quello appena citato. Diciamo che un ente x sopravviene su un ente y se e solo se, necessariamente, nel caso in cui y non esistesse, anche x non esisterebbe. (Una precisazione d'obbligo: la sopravvenienza si considera più o meno forte in base al tipo di necessità chiamata in causa nella sua definizione; nel caso di Lewis, si potrebbe sostenere che questa sia la necessità nomologica; per semplicità, qui non sarà fatta alcuna specificazione a questo riguardo.) Il passo contiene due scommesse teoriche: una di sopravvenienza, secondo cui le verità nomologiche (che riguardano le leggi di natura), quelle sui fatti intenzionali (i contenuti mentali) e quelle sui fatti normativi (convenzioni sociali e principi etici) sopravvengono – tutte – sulla distribuzione delle qualità locali; l'altra, in base alla quale la sopravvenienza si fonda esclusivamente su proprietà intrinseche: in altre parole, le qualità locali sono tutte intrinseche. Si tratta certamente di scommesse ambiziose, anzi, di un vero e proprio programma filosofico a cui Lewis si impegnò sempre più consapevolmente a rimanere fedele. L'aspetto forse più intrigante, piacevole e affascinante del programma è che non c'è un'opera in cui lo si trovi tutto esposto: esso emerge pubblicazione dopo pubblicazione, argomento dopo argomento, come per un intricato mosaico costruito nell'arco di una vita di lavoro.
In questa voce cercheremo di render conto della portata e sistematicità del programma lewisiano. Ci occuperemo dapprima della scommessa riguardo alle proprietà intrinseche; così facendo, espliciteremo anche le basi teoriche che useremo poi per trattare della sopravvenienza. Come in ogni sintesi e ricostruzione, talvolta la trattazione risulterà forzata agli occhi dei lettori più esperti e potrebbe essere accidentalmente fuorviante per quelli con meno dimestichezza: per gli approfondimenti del caso, si rimanda alle indicazioni bibliografiche finali.