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Il test della falsa credenza

di Marco Fenici
28.06.2013

La ricerca empirica nelle scienze cognitive può essere di supporto all'indagine filosofica sullo statuto ontologico e epistemologico dei concetti mentali, ed in particolare del concetto di credenza. Da oltre trent'anni gli psicologi utilizzano il test della falsa credenza per valutare la capacità dei bambini di attribuire stati mentali a se stessi e a agli altri. Tuttavia non è stato ancora pienamente compreso né quali requisiti cognitivi siano necessari per passare il test né quale sia il loro sviluppo. In questo articolo analizzo l'impatto della funzione esecutiva e delle abilità linguistiche per la capacità di passare il test della falsa credenza. Suggerisco che tale abilità dipende dall'acquisizione di un nuovo formato rappresentazionale per codificare la falsità degli stati mentali altrui. I dati in nostro possesso non permettono tuttavia di precisare la natura di tale formato.


Nella vita quotidiana teniamo normalmente conto degli stati mentali delle altre persone e del modo in cui questi si riflettono nel loro comportamento. Comprendiamo, per esempio, che l'automobilista davanti a noi non sa che il semaforo è diventato verde dal fatto che non sta guardando la strada. Questo ci fa prevedere che continuerà a parlare distratto al cellulare, e reagiamo suonando un colpo di clacson perché ci aspettiamo che questo lo porterà a guardare il semaforo, quindi a sapere che può attraversare l'incrocio e (presupponendo che questo è un suo desiderio) a mettere in atto tale intenzione. Nonostante il carattere apparentemente deduttivo, le inferenze appena descritte si basano su di una comprensione spontanea e non formalizzata degli stati mentali mentali altrui. Esse rigardano un dominio di conoscenze pre-teoriche che nel complesso definiscono quella che viene chiamata psicologia del senso comune o anche psicologia ingenua. Su quale base di considerazioni siamo tuttavia giustificati a utilizzare la psicologia del senso comune per descrivere il nostro comportamento? Quale insieme di fatti garantisce l'affidabilità delle predizioni tratte per mezzo di essa? Gli attuali tentativi di risposta a queste domande possono essere classificati in tre categorie. In una prospettiva realista, i concetti di stato mentale identificano tipi naturali passibili di indagine empirica — perché individuano, per esempio, stati cerebrali [Armstrong, 1968; Place, 1956; Smart, 1959], disposizioni comportamentali [Matthews, 2007], o stati cognitivi [Fodor, 1975, 1987, 2008]. Ne segue che siamo giustificati ad impiegare i termini di stato mentale tratti dal vocabolario della psicologia del senso comune perché questi denotano effettivamente delle proprietà fisiche degli agenti cognitivi. Questa conclusione è negata da quei filosofi che abbracciano una posizione eliminativista dei concetti di stato mentale [P. M. Churchland, 1979, 1981, 1996; P. S. Churchland, 1989]. In base a tale posizione, la psicologia del senso comune fa riferimento a proto-categorie scientifiche che non sono state riviste negli ultimi duemila anni e che sono ormai descrizioni vuote — come le spiegazioni del movimento dei corpi secondo la medievale teoria dell'impetus, o o le spiegazioni dei fenomeni di combustione secondo la moderna teoria del flogisto. Essa è pertanto una teoria falsa e non verificabile, che dovrebbe essere abbandonata. La prospettiva strumentalista [Dennett, 1987, 1991; ma si vedano anche Hutto, 2008; Maibom, 2007, 2009; Slors, 2012 come esempi di una concezione non-naturalista sulla psicologia del senso comune] rivendica infine l'ineliminabilità della nostra abitudine ad esprimerci nei termini della psicologia del senso comune sulla base della sua utilità. La nostra abitudine ad attribuire stati mentali non è giustificata perché descrittivamente adeguata ma perché ha un'importante funzione normalizzante [Bruner, 1990] e regolativa [McGeer, 2007; Zawidzki, 2008] della nostra vita sociale. Nella misura in cui la psicologia del senso comune sembra cogliere l'essenza dei concetti mentali così per come li concepiamo quotidianamente, chiarire il suo statuto ontologico ed epistemologico rappresenta un chiaro obiettivo per l'indagine filosofica. Non si deve tuttavia escludere che un'importante aiuto nella risoluzione di tali questioni possa arrivare anche dallo studio dei meccanismi cognitivi sottostanti alla capacità di attribuzione di stati mentali. Le scienze cognitive possono infatti aiutarci a chiarire se tale capacità faccia parte del nostro corredo evolutivo o sia invece legata alla nostra partecipazione in determinate pratiche sociali di spiegazione e giustificazione delle nostre azioni. Nella misura in cui le nostre capacità di categorizzazione concettuale si modellano sulla realtà delle entità categorizzate, chiarire lo sviluppo della nostra capacità di attribuire stati mentali può fornire anche un'evidenza indiretta sulla natura dei concetti della psicologia del senso comune. Questo articolo si propone di investigare tale questione in relazione alla nostra capacità di attribuire credenze, cioè quelle rappresentazioni che ci formiamo della realtà e che, a differenza di altri stati mentali, possono essere vere o false. Lo studio di questa capacità ha una lunga storia in psicologia dello sviluppo a partire dall'invenzione del paradigma sperimentale noto come test della falsa credenza. Ne illustrerò le caratteristiche essenziali nella sezione 2. Alcuni recenti studi basati sulla valutazione di indici comportamentali nella prima infanzia sembrano ridimensionare l'importanza del test della falsa credenza. Nella sezione 3 spiegherò perché tali risultati non sminuiscono la rilevanza di comprendere il significato del dato sperimentale fornito dalla versione tradizionale del test. Nelle sezioni successive mi rivolgerò quindi all'analisi di alcune facoltà mentali che sono state collegate alla capacità di attribuire stati mentali, in particolare la funzione esecutiva (sezione 4) e lo sviluppo delle capacità linguistiche (sezione 5). Concluderò che, stando ai dati in nostro possesso, l'abilità di passare il test della falsa credenza è determinata tanto dallo sviluppo cognitivo quanto dall'interazione sociale. Questa conclusione non indirizza chiaramente verso una soluzione realista oppure strumentale al dibattito sulla natura dei concetti della psicologia del senso comune sebbene sia contraria alla posizione eliminativista.

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