Interviste

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Conversazione con Diego Marconi

di Paolo Tripodi
25.09.2015

Diego Marconi è professore ordinario di filosofia del linguaggio nel Dipartimento di Filosofia e Scienze dell'Educazione dell'Università di Torino. In precedenza ha insegnato a Cagliari e Vercelli, ed è stato Visiting Professor a Pittsburgh, Ginevra e Barcellona. È stato uno dei fondatori della Società Italiana di Filosofia Analitica e della European Society of Analytic Philosophy, ed è membro dell'Academia Europaea e dell'Accademia delle Scienze di Torino. Ha trascorso periodi di ricerca al Center for Philosophy of Science di Pittsburgh, al CREA di Parigi, alla University of California, Irvine, a Oxford e Barcellona. Fa parte dell'Editorial Board di riviste italiane (Sistemi Intelligenti, Iride) e internazionali (Dialectica, Mind & Society, European Journal of Philosophy, European Journal for Philosophy of Science, Revue philosophique de Louvain). È stato referee per molte riviste internazionali, sulle quali ha pubblicato numerosi articoli. È autore di diversi libri, tra i quali L'eredità di Wittgenstein (1987), Lexical Competence (1997), Filosofia e scienza cognitiva (2001), Per la verità (2007) e Il mestiere di pensare (2014). La sua ricerca verte su svariati temi, tra i quali il pensiero di Wittgenstein, la filosofia analitica del linguaggio e la filosofia delle scienze cognitive.


PT: Da oltre trent'anni il tuo nome è strettamente associato, in Italia e in Europa, alla filosofia analitica. Però tu sei diventato un filosofo a Torino, nella seconda metà degli anni '60 (gli anni della contestazione), e per un certo periodo hai aderito e contribuito a sviluppare la prospettiva ermeneutica di Luigi Pareyson e Gianni Vattimo. Per incominciare, vorrei chiederti di raccontare quel periodo della tua formazione, a partire dal tuo primo incontro con la filosofia.

DM: Mio padre, che era un chirurgo, aveva avuto una passione giovanile (in seguito non del tutto sopita) per la filosofia, e aveva in casa parecchi libri di filosofia tra cui vari libri di Bertrand Russell. Io ho incontrato la filosofia, e contemporaneamente la figura di Wittgenstein, attraverso quei libri: in particolare i Ritratti a memoria e l'Introduzione alla filosofia matematica, nelle disastrose traduzioni di Longanesi. Ero un ragazzino quindicenne e della teoria delle descrizioni o degli assiomi di Peano capivo abbastanza poco, ma quella roba mi affascinava, e non meno mi affascinava l'ambiente di Bloomsbury, che Russell riusciva a raccontare come se fosse stato il centro del mondo; e il misterioso Wittgenstein, "la più pura immagine del genio" (diceva Russell). Negli anni successivi, in liceo, lessi per conto mio parecchie pagine dei classici della filosofia: i Sofisti e un po' di Platone, Epicuro, molto da Cartesio a Kant (il Seicento per me resta un'età aurea della filosofia), avendo la fortuna di avere come insegnante Nynfa Bosco. La Bosco lavorava anche all'Università, traduceva e studiava Whitehead, e per me fu la via d'accesso a un punto di vista non liceale sulla filosofia (oltre che una severa maestra di chiarezza e onestà intellettuale, virtù che allora possedevo poco). In quegli anni Russell e Wittgenstein sparirono un po' dal mio orizzonte, anche se non del tutto, tant'è vero che in prim'anno di università un mio amico economista e io costituimmo un minigruppo di lettura sul Tractatus (eravamo lui e io).

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